Il “tempo dei miracoli” della destra israeliana è finito. I palestinesi non se ne andranno da nessuna parte

Sebbene sia discutibile per molte ragioni, il piano in 20 punti di Trump per porre fine alla guerra a Gaza sembra segnare la fine delle fantasie di espulsione del governo israeliano.

di Meron Rapoport

+972 Magazine / LocalCall, 02.10.2025

Sappiamo bene che non è il caso di prendere alla lettera la cosiddetta proposta di pace presentata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ma mentre il mondo attende la risposta di Hamas al piano in 20 punti di Trump per porre fine alla guerra a Gaza, pubblicato lunedì in concomitanza con la conferenza stampa dei due leader alla Casa Bianca, è possibile trarre alcune prime conclusioni su ciò che tutto questo significa per Israele e i palestinesi.

Prima di discutere su chi abbia “vinto” o “perso” negli ultimi due anni, tuttavia, non dobbiamo dimenticare il semplice fatto che, se questo accordo verrà attuato alla lettera, il genocidio finirà, la distruzione di Gaza cesserà, gli aiuti umanitari affluiranno per prevenire ulteriori carestie, tutti gli ostaggi israeliani rimasti saranno rilasciati insieme a migliaia di palestinesi detenuti con o senza accuse nelle prigioni israeliane, e i soldati israeliani non saranno più uccisi al servizio di una guerra insensata e criminale.

Ci sono molti aspetti confusi e contraddittori sia nel discorso di Trump che nella proposta scritta, mentre alcuni dei paesi che inizialmente avevano approvato il testo stanno già prendendo le distanze da esso a seguito delle modifiche dell'ultimo minuto apportate da Netanyahu. Ma i punti fondamentali sono più o meno gli stessi che sono stati discussi durante i negoziati di cessate il fuoco fin dall'ottobre 2023: il rilascio degli ostaggi israeliani in cambio della fine della guerra e del rilascio dei prigionieri palestinesi, il ritiro graduale di Israele da Gaza, la rinuncia al potere da parte di Hamas e l'ingresso di una forza di sicurezza multinazionale con il coinvolgimento di diversi Stati arabi.

Dopo circa 100.000 morti palestinesi e la distruzione della maggior parte delle città di Gaza, qualsiasi discorso sulla “vittoria” di Hamas sarebbe semplicemente assurdo. Ma questa proposta non è nemmeno una vittoria per Israele, certamente non per Netanyahu e i suoi partner di governo, le cui ambizioni di ripulire Gaza dalla popolazione palestinese sono chiare da tempo.

Non era passata nemmeno una settimana dagli attacchi guidati da Hamas del 7 ottobre quando il Ministero dell'Intelligence israeliano (piuttosto impotente), guidato da Gila Gamliel del partito Likud di Netanyahu, ha pubblicato un piano ufficiale che prevedeva l'“evacuazione” dei 2,3 milioni di residenti di Gaza. L'esercito ha iniziato ad attuare una politica di distruzione di interi quartieri per impedire il ritorno degli sfollati poco dopo, e questa è diventata la sua modalità operativa principale a partire dal cosiddetto “Piano dei Generali” alla fine del 2024.

An aerial view of destroyed residential buildings in the Tel Al-Sultan neighborhood, following the withdrawal of Israeli army in Rafah, January 19, 2025. (Ali Hassan/Flash90)

Veduta aerea degli edifici residenziali distrutti nel quartiere di Tel Al-Sultan, dopo il ritiro dell'esercito israeliano durante un cessate il fuoco, Rafah, Striscia di Gaza meridionale, 19 gennaio 2025. (Ali Hassan/Flash90)

 

Dal momento in cui Trump ha presentato il suo piano “Riviera di Gaza” nel febbraio di quest'anno, la pulizia etnica - sia essa definita come “emigrazione volontaria” o semplicemente espulsione - è diventata il piano d'azione centrale del governo israeliano. Netanyahu ne ha parlato apertamente. Il ministro della Difesa Israel Katz ha istituito un'“amministrazione del trasferimento” per sviluppare piani per attuarla. Funzionari israeliani e americani hanno cercato paesi disposti ad accogliere un gran numero di rifugiati palestinesi.

L'esercito ha presentato “l'espulsione della popolazione” come uno degli obiettivi dell'operazione “Gideon's Chariots” lanciata a maggio e si è vantato dei convogli di centinaia di migliaia di persone costrette ad abbandonare la città di Gaza nelle ultime settimane a seguito dell'operazione “Gideon's Chariots II”. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha affermato che sarebbe già in corso la spartizione dei beni immobiliari di Gaza con l'amministrazione Trump, poiché quella che ha descritto come una “vittoria decisiva” sui palestinesi sembrava ormai a portata di mano. Per la destra israeliana, era, come ha affermato lo scorso anno il ministro degli Insediamenti e delle Missioni Nazionali Orit Strook, “il tempo dei miracoli”.

Molto è stato lasciato ambiguo nel piano in 20 punti della Casa Bianca, ma quando si tratta della questione della migrazione, il linguaggio è inequivocabile. “Nessuno sarà costretto a lasciare Gaza, e coloro che desiderano andarsene saranno liberi di farlo e liberi di tornare”, afferma l'articolo 12. “Incoraggeremo le persone a rimanere e offriremo loro l'opportunità di costruire una Gaza migliore”.

Il "tempo dei miracoli”, quell'opportunità unica nel secolo di eliminare una volta per tutte i palestinesi da Gaza, è finito. Malconci e feriti, i gazawi rimangono.

L'articolo 16 afferma inoltre che “Israele non occuperà né annetterà Gaza”. Insieme ai commenti di Trump della scorsa settimana che implicano che anche l'annessione della Cisgiordania è fuori discussione per il momento, la lista dei desideri del governo sta rapidamente svanendo.

Inoltre, la vertiginosa inversione di rotta dei portavoce di Netanyahu nei media di destra – dall'euforia per l'imminente espulsione al fervente sostegno all'accordo anti-trasferimento di Trump – deriva non solo dal desiderio di glorificare il primo ministro in vista di quelle che molti prevedono saranno elezioni anticipate il prossimo anno, ma anche dal tardivo riconoscimento che la deportazione di massa è semplicemente irrealizzabile.

Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu meets with U.S. President Donald Trump and at the White House announcing the U.S. 20-point plan for ending the war in Gaza, Washington, DC, September 29, 2025. (The White House/CC BY 3.0 US)

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu incontra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Casa Bianca e annuncia il piano in 20 punti degli Stati Uniti per porre fine alla guerra a Gaza, Washington, DC, 29 settembre 2025. (The White House/CC BY 3.0 US)

 

La realtà dei fatti è che l'Egitto non permetterà alcun trasferimento forzato nel Sinai e nessun Paese ha accettato di accogliere centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi. Anche se Israele riuscisse a distruggere Gaza City e a spingere tutti i residenti rimasti verso Al-Mawasi, nel sud, si ritroverebbe comunque con due milioni di palestinesi sulle spalle e con un livello di isolamento internazionale che un tempo sarebbe stato considerato impossibile.

Sembra che molti in Israele, anche tra i sostenitori di Netanyahu, stiano ora comprendendo che è meglio chiudere il capitolo Gaza e dichiarare vittoria piuttosto che continuare a condurre una campagna militare senza una fine chiara e con obiettivi che non potranno mai essere raggiunti.

 

Fine del blocco, inizio di uno Stato?

Hamas, e i palestinesi in generale, non sono certamente contenti della nuova proposta, e a ragione. Ad eccezione di un ritiro iniziale e limitato delle forze israeliane, non ci sono date o garanzie per ulteriori ritirate. Questo lascia aperta la porta a Israele per affermare che le sue condizioni non sono state soddisfatte e che quindi continuerà a occupare ampie zone di Gaza. La proposta include anche la “smilitarizzazione” della Striscia e la distruzione di tutte le infrastrutture militari, il che significa che nessun gruppo armato palestinese sarà in grado di respingere l'aggressione israeliana.

A livello politico, l'Autorità Palestinese (AP) non tornerà a Gaza fino a quando non avrà attuato un “programma di riforme” la cui durata è lasciata indefinita. La storica separazione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania continuerà quindi a tempo indeterminato, e Gaza stessa sarà posta sotto una sorta di amministrazione fiduciaria anglo-americana. Hamas rinuncerà a tutti i poteri di governo e ai suoi leader “che si impegnano a coesistere pacificamente” sarà concessa l'amnistia e sarà garantito loro un passaggio sicuro qualora desiderassero lasciare la Striscia.

Essendo un'organizzazione fondata sull'idea di “resistenza”, sarà estremamente difficile per Hamas accettare ciò che inevitabilmente sarà percepito come una resa. Potrebbe rifiutare l'accordo proprio per questo motivo. (ndr il 4 ottobre Hamas ha accettato, con alcune riserve, i punti principali del piano)

Members of the Al-Qassam Brigades, the military wing of Hamas and mourners attend the funeral of Al-Qassam fighters who were killed during the war between Israel and Hamas in the Al-Shati camp, in Gaza City, February 28, 2025. (Khalil Kahlout/Flash90)

Membri delle Brigate Al-Qassam, l'ala militare di Hamas, durante i funerali dei combattenti Al-Qassam uccisi durante la guerra tra Israele e Hamas nel campo di Al-Shati, nella città di Gaza, il 28 febbraio 2025. (Khalil Kahlout/Flash90)

 

Ma anche in questo caso le cose sono un po' più complicate. La Forza Internazionale di Stabilizzazione (ISF) descritta nel testo ricorda molto quella che il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas e persino alcuni governi europei avevano invocato vent'anni fa per proteggere i palestinesi da Israele. Israele non si è mai preoccupato di commentare quelle proposte; ora Netanyahu presenta l'idea come un risultato storico.

Non è ancora chiaro quale sarà esattamente la composizione dell'ISF, quali poteri avrà e come funzionerà il suo coordinamento con l'esercito israeliano. Ma è chiaro che sarà composta da soldati stranieri – provenienti dal Pakistan, dall'Indonesia e forse dall'Egitto – insieme alla polizia palestinese locale.

Non è un caso che Netanyahu preferisse che Hamas governasse a Gaza: sapeva che non aveva alcun sostegno internazionale, quindi poteva bombardare la Striscia ogni volta che voleva. Sarà molto più difficile agire con forza contro i soldati pakistani, che sono sostenuti da una potenza nucleare. Il segretario del gabinetto israeliano Yossi Fuchs può continuare a vantarsi che Israele manterrà il controllo generale della sicurezza su Gaza, ma il testo dice altro. Nessuna delle clausole suggerisce che le forze israeliane potranno operare nelle aree sotto il controllo dell'ISF.

Inoltre, la Striscia di Gaza è sotto assedio israeliano da quasi due decenni. Se attuato, il piano di Trump comporterà l'istituzione di un cosiddetto “Consiglio di pace” guidato dallo stesso presidente degli Stati Uniti e dall'ex primo ministro britannico Tony Blair, il che significa che il blocco in pratica finirà. Secondo la proposta, non solo gli aiuti affluiranno a Gaza almeno nella misura concordata nel cessate il fuoco del gennaio di quest'anno (600 camion al giorno), ma “l'ingresso e la distribuzione degli aiuti procederanno senza interferenze da parte delle due parti attraverso le Nazioni Unite e le sue agenzie e la Mezzaluna Rossa”, segnando la fine del meccanismo estremamente letale della Gaza Humanitarian Foundation (GHF).

Sebbene molti osservatori abbiano sottolineato che il “Consiglio di pace” ha più di un che di colonialismo, tutti i suoi meccanismi - dalle forze di sicurezza all'amministrazione locale e, soprattutto, al finanziamento - coinvolgono i palestinesi insieme al personale di altri Stati arabi e musulmani. Se questi paesi non saranno soddisfatti di ciò che vedranno, questa amministrazione transitoria cadrà a pezzi.

Blair può essere giustamente biasimato per la guerra mortale in Iraq e le sue disastrose conseguenze, ma è difficile immaginare che, con la sua nuova immagine brillante, accetti che l'esercito israeliano gli imponga se consentire o meno l'ingresso di verdure o farina nel suo piccolo emirato di Gaza. Allo stesso modo, prima del 2023, il blocco di Israele rendeva praticamente impossibile per i palestinesi lasciare la Striscia, a volte richiedendo loro addirittura di rinunciare alla residenza come condizione per ottenere un permesso di uscita o di impegnarsi a non tornare per almeno un anno. Secondo la nuova proposta, l'ingresso e l'uscita saranno liberi.

Palestinians protest in front of the fence encaging the Gaza Strip, August 21, 2021. (Mohammed Zaanoun/Activestills)

Palestinesi protestano davanti alla recinzione che circonda la Striscia di Gaza, 21 agosto 2021. (Mohammed Zaanoun/Activestills)

 

E poi c'è la questione della statualità palestinese. Su questo punto, il testo non potrebbe essere più vago: “Mentre la ricostruzione di Gaza procede e quando il programma di riforme dell'Autorità Palestinese sarà fedelmente attuato, potrebbero finalmente esserci le condizioni per un percorso credibile verso l'autodeterminazione e la statualità palestinese”, afferma la penultima clausola.

Il programma di riforme, si legge, si baserà sulle proposte già pubblicate nel “Deal of the Century” di Trump del 2020 e sulla più recente iniziativa saudita-francese, che includono riferimenti alla cessazione dei pagamenti dell'Autorità Palestinese alle famiglie dei prigionieri (cosa già avvenuta), alla modifica dei programmi scolastici delle scuole dell'Autorità Palestinese sotto la supervisione europea (cosa già avvenuta in passato) e allo svolgimento di elezioni libere, cosa che i palestinesi chiedono da molti anni.

Se le decisioni relative alla “fedeltà” con cui questo programma di riforme sarà attuato e al momento in cui “le condizioni saranno finalmente mature” per passare alla creazione di uno Stato saranno lasciate nelle mani di Israele, la strada verso uno Stato palestinese rimarrà senza dubbio bloccata per sempre. Netanyahu ha infatti già iniziato a diffondere tra i suoi sostenitori l'idea che questo accordo non porterà in alcun modo all'indipendenza dei palestinesi.

Ma se tale decisione spetterà al “Consiglio di pace” di Blair e Trump, insieme alla forza di sicurezza multinazionale, le cose potrebbero apparire piuttosto diverse. E se essi decideranno che l'Autorità Palestinese ha soddisfatto le condizioni richieste, Netanyahu dovrà fare i conti con il fatto di aver firmato un accordo che lo impegna a seguire un “percorso credibile” verso uno Stato palestinese.

 

Cambiamento di paradigma

Netanyahu cercherà di presentare l'accordo come una sorta di ritorno al 6 ottobre 2023, alla politica di “gestione del conflitto” sostenuta nientemeno che dai leader dell'opposizione Yair Lapid e Naftali Bennett. Ma questa politica si basava sull'idea che la comunità internazionale, e in particolare gli Stati del Golfo, avrebbero accettato di approfondire i legami con Israele, aggirando e isolando i palestinesi.

Oggi la situazione sembra completamente diversa. Dopo il bombardamento del Qatar da parte di Israele, gli Stati arabi, compresi quelli del Golfo, sembrano essere giunti alla conclusione che Israele rappresenta una minaccia costante alla loro stabilità e che l'unico modo per stabilizzare il Medio Oriente è attraverso la creazione di uno Stato palestinese, non per solidarietà con i palestinesi, ma per il proprio interesse. La recente ondata di riconoscimenti diplomatici dello Stato palestinese dimostra che la comunità internazionale è in stragrande maggioranza dello stesso avviso.

 

Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze