Israele dopo il 7 ottobre: tra decolonizzazione e disintegrazione

È difficile prevedere cosa accadrà in Israele, ma la storia può darci un indizio.

Ilan Pappe

Ilan Pappe è il direttore del Centro Europeo di Studi sulla Palestina presso l'Università di Exeter.

Pubblicato il 7 ott 2024

Foto: Manifestanti tengono una bandiera israeliana, mentre la polizia usa cannoni ad acqua durante una protesta contro il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Tel Aviv il 18 maggio 2024 [File: Shannon Stapleton/Reuters]

È passato un anno dal 7 ottobre 2023 ed è giunto il momento di capire meglio questo evento monumentale e tutto ciò che lo ha seguito.

Per gli storici come me, un anno, di solito, non è sufficiente per trarre conclusioni significative. Tuttavia, ciò che è accaduto negli ultimi 12 mesi, rientra in un contesto storico molto più ampio, che risale almeno al 1948 e, direi, anche ai primi insediamenti sionisti in Palestina alla fine del XIX secolo.

Pertanto, ciò che possiamo fare come storici è collocare l'anno passato all'interno dei processi a lungo termine che si sono svolti nella Palestina storica dal 1882. Ne esplorerò due dei più importanti.

Colonizzazione e decolonizzazione

Il primo processo è la colonizzazione e il suo opposto - la decolonizzazione. Le azioni israeliane dell’ultimo anno, sia nella Striscia di Gaza che nella Cisgiordania occupata, hanno dato nuovo credito all'uso di questi due termini. Sono passati dal vocabolario degli attivisti e degli accademici del movimento pro-Palestina al lavoro di tribunali internazionali come la Corte Internazionale di Giustizia.

Il mondo accademico e i media mainstream si rifiutano ancora di definire il progetto sionista come un progetto coloniale, o come viene più precisamente definito un progetto coloniale di insediamento. Tuttavia, mentre Israele intensifica la colonizzazione della Palestina, nel prossimo anno, ciò potrebbe spingere un maggior numero di individui e istituzioni a inquadrare la realtà in Palestina come coloniale e la lotta palestinese come anticoloniale e a fare a meno dei cliché sul terrorismo e sui negoziati di pace.

In effetti, è ora di smettere di usare un linguaggio fuorviante usato dai media statunitensi e occidentali, come "il gruppo terroristico Hamas sostenuto dall'Iran" o "processo di pace", e parlare invece di resistenza palestinese e decolonizzazione della Palestina dal fiume al mare.

Ciò che aiuterà in questo sforzo è il crescente discredito dei media mainstream occidentali come fonte credibile sia di analisi che di informazione. Oggi, i dirigenti dei media stanno combattendo con le unghie e con i denti contro qualsiasi cambiamento nel linguaggio, ma alla fine rimpiangeranno di essere finiti dalla parte sbagliata della storia.

Questo cambiamento di narrazione è importante perché ha il potenziale di influenzare la politica, più specificamente la politica del Partito Democratico negli Stati Uniti. I democratici più progressisti hanno già abbracciato un linguaggio e un'inquadratura più accurati di ciò che sta accadendo in Palestina.

Resta da vedere se questo sarà sufficiente per effettuare un cambiamento in un'amministrazione democratica nel caso in cui Kamala Harris dovesse vincere le elezioni. Ma non sono ottimista riguardo a un tale cambiamento, a meno che i processi di implosione sociale all'interno di Israele, la sua crescente vulnerabilità economica e l'isolamento internazionale non mettano fine ai vuoti sforzi democratici per resuscitare il defunto "processo di pace".

Se Donald Trump vincerà, la prossima amministrazione americana sarà la stessa di quella attuale, nel migliore dei casi, o nel peggiore concederà apertamente carta bianca a Israele.

Indipendentemente da ciò che accadrà nelle elezioni americane del mese prossimo, una cosa rimarrà vera: fino a quando questi due schemi di colonizzazione e decolonizzazione saranno ignorati da coloro che hanno il potere di fermare il genocidio a Gaza e l'avventurismo israeliano altrove, c'è poca speranza di pacificare la regione nel suo complesso.

La disintegrazione di Israele

Il secondo processo che è emerso in tutta la sua forza in quest'ultimo anno è stata la disintegrazione di Israele e il possibile collasso del progetto sionista.

L'idea originale sionista di impiantare uno stato ebraico europeo nel cuore del mondo arabo attraverso l'espropriazione dei palestinesi era illogica, immorale e impraticabile fin dall'inizio.

Ha resistito per tanti anni perché è stata al servito di un'alleanza molto potente che, per ragioni religiose, imperialiste ed economiche, ha considerato tale Stato come il soddisfacimento degli obiettivi ideologici o strategici di chiunque facesse parte di quell'alleanza, anche se a volte questi interessi erano in contraddizione fra di loro.

Il progetto dell'alleanza di risolvere il problema europeo del razzismo attraverso la colonizzazione e l'imperialismo in mezzo al mondo arabo sta entrando nel suo momento di verità.

Dal punto di vista economico, un Israele non impegnato in una breve guerra vittoriosa come in passato, ma in una lunga guerra con scarse prospettive di una vittoria totale, non favorisce gli investimenti internazionali e le prosperità economiche.

Dal punto di vista politico, un Israele che commette un genocidio non è più così attraente per gli ebrei, specialmente per coloro che credono che il loro futuro come fede o gruppo culturale non dipenda da uno stato ebraico e che anzi potrebbe essere più sicuro senza di esso.

I governi di oggi fanno ancora parte dell'alleanza, ma la loro appartenenza dipende dal futuro della politica nel suo insieme. Con questo intendo dire che gli eventi catastrofici dell'ultimo anno in Palestina, insieme al riscaldamento globale, alla crisi dell'immigrazione, all'aumento della povertà e dell'instabilità in molte parti del mondo, hanno messo in luce quanto molte élite politiche siano distanti dalle aspirazioni, dalle preoccupazioni e dai bisogni elementari dei loro popoli.

Questa indifferenza e questo distacco saranno messi in discussione e ogni volta che saranno affrontati con successo, la coalizione che sostiene la colonizzazione israeliana della Palestina, sarà indebolita.

Quello che non abbiamo visto nell'ultimo anno è l'emergere di una leadership palestinese che rifletta l'impressionante unità del popolo dentro e fuori la Palestina e la solidarietà del movimento globale di sostegno. Forse è chiedere troppo in un momento così buio della storia della Palestina, ma dovrà accadere, e sono abbastanza sicuro che accadrà.

I prossimi 12 mesi saranno una replica peggiore dell'anno passato in termini di politiche genocide di Israele, l'escalation della violenza nella regione e il continuo sostegno dei governi, sostenuti dai loro media, vanno verso questa traiettoria distruttiva. Ma la storia ci dice che questo è il modo in cui si conclude un capitolo orribile nella cronologia di un Paese; non è il modo in cui ne inizia uno nuovo.

Gli storici non devono prevedere il futuro, ma possono almeno articolarne uno scenario ragionevole. In questo senso, credo sia ragionevole affermare che la domanda “se” l'oppressione dei palestinesi finirà può essere sostituita da “quando”. Non conosciamo il “quando”, ma possiamo tutti impegnarci per ottenerlo al più presto.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell'autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ilan Pappe

Ilan Pappe è il direttore del Centro Europeo di Studi sulla Palestina presso l'Università di Exeter. Ha pubblicato 15 libri sul Medio Oriente e sulla questione palestinese.

Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze

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