di Francesca Gnetti
Internazionale, 20.09.2024
Seicentoventicinquemila. È il numero di bambini che per il secondo anno di seguito non andranno a scuola nella Striscia di Gaza. Quarantacinquemila sono quelli che, secondo l’Unicef, avrebbero dovuto entrare in prima elementare. In Palestina l’anno scolastico è cominciato ufficialmente il 9 settembre, ma invece di andare a scuola bambini e adolescenti della Striscia di Gaza si svegliano nei loro alloggi di fortuna e si mettono in fila per ricevere acqua o altri beni di prima necessità, o vagano per le strade in cerca di qualcosa da mangiare. La maggior parte di loro è sfollata e vive nelle tende o in edifici sovraffollati dove molte famiglie condividono spazi angusti e privi di servizi di base.
Secondo Education Cluster, un’alleanza di organizzazioni umanitarie guidata da Unicef e Save the Children, circa il 90 per cento delle 307 strutture scolastiche pubbliche e tutte le dodici università della Striscia sono state danneggiate o distrutte negli attacchi israeliani. Il ministero della sanità gestito da Hamas ha registrato venticinquemila bambini in età scolastica tra le più di 41mila vittime dall’inizio dell’offensiva israeliana il 7 ottobre 2023. Gli insegnanti uccisi sono almeno 750. L’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi, ha trasformato gran parte delle scuole che gestiva in rifugi per sfollati, molti dei quali sono stati presi di mira dai bombardamenti israeliani. I dati dell’Unrwa al 30 agosto stimano che almeno 563 persone rifugiate nelle sue strutture sono state uccise in questi attacchi.
Il 1 agosto l’Unrwa ha lanciato il programma Back to learning, che coinvolge 45 rifugi in tutto il territorio ed è diviso in due fasi. La prima prevede soprattutto attività di sostegno psicosociale, con corsi di musica, arte, sport e su come gestire i rischi legati al conflitto, per esempio individuare ed evitare gli ordigni esplosivi. La seconda invece è più concentrata sulla didattica, con lezioni di lettura, scrittura e matematica. Dalla fine di maggio l’Unicef e altre agenzie umanitarie hanno allestito 175 centri di apprendimento temporanei in cui lavorano circa 1.200 insegnanti volontari. Sono frequentati da trentamila alunni, ma studiare è difficile quando mancano i libri, i quaderni e le penne, che non sono considerati beni di prima necessità dalle agenzie umanitarie, già in difficoltà a fornire cibo e medicine. Inoltre molti bambini e adolescenti sono traumatizzati dalla guerra e malnutriti, quindi non hanno la concentrazione né l’energia per seguire le lezioni.
Alcuni atenei, tra cui l’università islamica di Gaza e l’università Al Aqsa, hanno annunciato la ripresa dei corsi online, attraverso lezioni teoriche, mentre quelle con applicazioni pratiche sono state rimandate a tempo indeterminato. Sono state rese disponibili delle piattaforme in cui gli studenti possono assistere alle lezioni, consegnare i compiti e sostenere gli esami. Chi non completerà i corsi a causa delle circostanze troppo difficili in cui si trova potrà farlo senza essere bocciato. Le difficoltà però sono molte, innanzitutto la rete internet poco affidabile e spesso non funzionante e poi la mancanza di computer e altri dispositivi. Anche l’elettricità è spesso assente e le persone sono costrette a cercare fonti alternative di energia, come quella solare, per ricaricare computer e telefoni.
L’istruzione è sempre stata una priorità per i palestinesi, in particolare nella Striscia di Gaza, dove prima dell’inizio dell’offensiva israeliana il tasso di alfabetizzazione era vicino al 98 per cento. Come ha notato la scrittrice di Gaza Eman Alhaj Ali in un articolo uscito su Al Jazeera, per i palestinesi gli spazi dedicati all’istruzione hanno sempre avuto la funzione di favorire l’apprendimento ma anche di preservare i legami tra le persone costrette a vivere separate a causa dell’occupazione israeliana, e tra loro e le terre che gli sono state sottratte. Nel tempo quindi le scuole sono diventate luoghi di “attivismo rivoluzionario e conservazione culturale”, svolgendo un ruolo importante nel movimento per la liberazione del popolo palestinese.
In altre parole, scrive Alhaj Ali, l’istruzione è una forma di “resistenza ai tentativi israeliani di cancellare la popolazione palestinese fin dalla nakba del 1948”. Quando nacque lo stato di Israele e le milizie ebraiche cacciarono centinaia di migliaia di persone dalle loro case, una delle prime cose che fecero i profughi una volta allestiti gli accampamenti fu aprire le scuole per i bambini. Lo sviluppo del settore è legato al fatto che “l’istruzione fu elevata a valore nazionale”. Per questo ha assunto un significato particolare nella Striscia di Gaza, dove i rifugiati costituiscono più dell’80 per cento della popolazione.
Ancora oggi studiare è considerato un atto di resistenza. Lo spiega Huda Skaik, studente di letteratura inglese, scrittrice e videomaker, in un articolo uscito sul sito indipendente The Electronic Intifada e pubblicato sull’ultimo numero di Internazionale, in edicola fino a domani. “È difficile fare le cose che prima erano normali. Caricare i libri sul telefono è diventato un’impresa. Le penne e i quaderni sono più costosi. Ma so che ogni riga che scrivo e ogni giorno impegnato a studiare è un atto di sfida alla distruzione che mi circonda”.
In una lettera aperta pubblicata alla fine di maggio, centinaia di accademici, ricercatrici, studiosi e universitarie della Striscia di Gaza denunciano lo “scolasticidio” in corso, cioè la distruzione sistematica del settore dell’istruzione palestinese da parte d’Israele, e ribadiscono la loro “determinazione collettiva” a riprendere le attività nelle università di Gaza. I firmatari sottolineano l’urgenza di ricostruire il settore dell’istruzione non solo per sostenere gli studenti, ma anche per “garantire la resilienza a lungo termine”. L’istruzione, confermano, “non è solo uno strumento per impartire la conoscenza; è un pilastro vitale della nostra esistenza e un segnale di speranza per il popolo palestinese”. Le università della Striscia di Gaza, concludono, sono già state costruite una volta a partire dalle tende. Lo saranno ancora, per garantire un futuro alle prossime generazioni.
Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.