I genitori dell'ostaggio israeliano Hersh Goldberg-Polin hanno implorato il rilascio del figlio. Ma Netanyahu ha scelto di aggrapparsi al potere e di versare fiumi di sangue a Gaza.
di Orly Noy
Local Call/ +972 , Israele
Sono passati undici mesi da quando la morte è arrivata sulla soglia delle nostre case. Il numero di palestinesi uccisi da Israele nel suo olocausto a Gaza rende difficile digerire la profondità dell’orrore. Quante immagini di bambini palestinesi morti si possono vedere prima che si trasformino tutte in un’intangibile distesa di tenebre?
La sensazione di assuefazione vale anche per le vittime israeliane, in particolare per gli ostaggi. Forse è per questo che quasi tutti gli israeliani, anche chi non ha un legame personale con le persone sequestrate, provano angoscia per il destino di una di loro in particolare. Per me era Hersh Goldberg-Polin, il giovane di 23 anni che ha perso un braccio durante il sequestro del 7 ottobre 2023 e che, ad aprile, ha parlato dalla prigionia in un video diffuso da Hamas. La casa della sua famiglia a Gerusalemme non è lontana dalla mia. Aveva la stessa età di mia figlia.
Quando la sera del 31 agosto abbiamo ricevuto la notizia che l’esercito aveva recuperato i corpi senza vita di altri sei ostaggi, non ho potuto fare a meno di pregare: “Fa’ che Hersh non sia uno di loro”. La mattina dopo ho scoperto che non ero stata esaudita. Quando sono andata alla fermata dell’autobus e ho visto il poster con il suo volto, ho sentito una fitta al cuore. Per quasi un anno ha sorriso ai passanti. Ora non c’è più. I suoi genitori avevano parlato alla convention democratica di Chicago appena due settimane prima, implorando di fare pressione per un accordo che lo riportasse a casa vivo. Il primo ministro Benjamin Netanyahu li guardava, sapendo che era tutto inutile. Mentre Hersh lottava per sopravvivere, Netanyahu non aveva alcuna intenzione di raggiungere un accordo che avrebbe restituito gli ostaggi alle loro famiglie, scegliendo di aggrapparsi al potere e di continuare a versare fiumi di sangue a Gaza. Come abbiamo accettato di affidare le nostre vite a quest’angelo della morte?
La mattina del 1 settembre, sull’autobus che mi portava alla stazione di Gerusalemme, scorrevo le immagini dei morti a Gaza. Ho pensato agli israeliani che sostengono lo sterminio, gli stessi che hanno cercato di metterci a tacere quando gridavamo fin dal primo giorno che questa follia ci avrebbe incendiati tutti.
I semi dell’umanità
È l’esempio più tragico di “ve l’avevamo detto” che si possa immaginare, ma l’idea di quanto tutto questo fosse inevitabile e prevedibile è sconcertante. Quando Israele ha definito i suoi vaghi obiettivi, come “eliminare Hamas e liberare gli ostaggi”, troppo pochi di noi – anche in occidente, dove si continua a permettere questa apocalisse – hanno avvertito che la guerra era una futile ricerca di vendetta che avrebbe messo in pericolo la vita degli ostaggi e non avrebbe ottenuto altro che distruzione e sangue, segnando il destino dei palestinesi e il nostro. L’opinione pubblica israeliana non ha voluto ascoltarci e i mezzi di comunicazione hanno incitato l’esercito ad andare avanti fino alla “vittoria totale”. Si dice che lo spacciatore più miserabile è quello che si fa della sua stessa droga. Israele è diventato dipendente dalla droga della morte, che ha iniettato con forza ai palestinesi per anni e che ora si sta iniettando inconsapevolmente. La prossima dose ci sistemerà di sicuro, basta aspettare.
Alla stazione una coppia di anziani mi ha chiesto come raggiungere il loro binario. Li ho accompagnati e ho sentito il masso di rabbia e dolore che ho dentro dissolversi lentamente di fronte ai loro sorrisi riconoscenti. Forse è tutto quello che ci resta in questo momento: raccogliere ogni brandello di umanità e custodirlo dentro di noi, prima che tutto sia distrutto. Forse allora ci sarà una base da cui partire per ricostruire una società più umana, che non sacrifichi i suoi figli sull’altare della vendetta. Forse questo ci aiuterà a conservare i semi dell’umanità, in modo da avere qualcosa da piantare il giorno in cui potremo respirare di nuovo.
Orly Noy è una giornalista e attivista politica israeliana. Presiede il comitato esecutivo dell’ong israeliana B’Tselem.
Traduzione dal numero 1579 di Internazionale