Non sorprende che l'annuncio abbia alimentato una retorica di indignazione fuori luogo da parte di Israele e dei suoi alleati
di Richard Falk
Middle East Eye, 22 maggio 2024
La Corte penale internazionale (CPI) ha compiuto questa settimana la prima mossa veramente storica dalla sua istituzione nel 2002, con il suo procuratore capo che ha raccomandato mandati di arresto contro due alti funzionari israeliani, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant, e tre importanti leader di Hamas.
Come previsto, entrambe le parti hanno denunciato questa azione della CPI con il linguaggio più forte possibile. A causa del pregiudizio dei media occidentali, le reazioni rabbiose di Israele e dei suoi alleati hanno dominato le notizie, mentre la dichiarazione ufficiale di Hamas è stata ampiamente ignorata.
Sebbene ciascuna parte abbia scelto una linea di argomentazione simile, c'è una differenza di 180 gradi fra loro prospettive.
L'obiezione fondamentale di Israele all'azione del procuratore è la presunta equivalenza tra Hamas, che ha perpetrato il barbaro attacco del 7 ottobre, e il governo democraticamente eletto di Israele, che afferma di aver agito per difendersi e ripristinare la sicurezza della popolazione.
Hamas e i suoi sostenitori sono anche sconcertati dall'equivalenza implicita nella richiesta di mandati di arresto, che “equipara la vittima al carnefice” nel contesto di un'occupazione israeliana oppressiva che comporta diritti legali di resistenza per i palestinesi, compreso il ricorso alla lotta armata.
A mio avviso, la risposta israeliana è retorica e polemica, giungendo ad affermare che Israele e i suoi leader non possano mai essere accusati di criminalità in un contesto caratterizzato da quanto accaduto il 7 ottobre, identificato come il peggior attacco al popolo ebraico dopo l'Olocausto.
Netanyahu ha definito la raccomandazione di mandati di arresto “un oltraggio morale di proporzioni storiche”, una “parodia della giustizia” che crea “un pericoloso precedente”, interferendo con il diritto degli Stati democratici di difendersi.
Manca la difesa
Ciò che è assente nella risposta israeliana è una difesa contro le specifiche accuse sul comportamento israeliano, considerato in tutto il mondo come un genocidio, come dimostrano le crescenti proteste anche negli Stati Uniti, il più incrollabile sostenitore di Israele.
I crimini e le prove sono circostanziati nel linguaggio del diritto e sono certamente di una portata e di una gravità tali da richiedere una risposta sostanziale in buona fede da parte di Israele. Niente di meno può convincere l'opinione pubblica mondiale che il procuratore della Corte penale internazionale avrebbe oltrepassato il suo mandato proponendo i mandati di arresto.
È particolarmente importante fare riferimento all'ordinanza provvisoria quasi unanime della Corte internazionale di giustizia di gennaio, a riprova del fatto che le accuse contro i leader di Israele non costituiscono affatto una vergogna o un pericoloso precedente. Tale ordinanza fornisce una base solida, anche se provvisoria, per ritenere che la violenza di Israele dopo il 7 ottobre costituisca un deplorevole caso di genocidio prolungato contro l'intera popolazione civile di Gaza.
In misura molto minore, la stessa critica si applica alla risposta di Hamas. Sebbene il procuratore avrebbe dovuto affrontare il contesto di una lunga occupazione abusiva e di atti in violazione del diritto umanitario internazionale, questo contesto non conferisce l'impunità agli eccessi criminali come quelli commessi il 7 ottobre.
La richiesta di emettere mandati di arresto contro i leader di Hamas è dubbia a causa dell'assenza, ad oggi, di un'indagine internazionale imparziale su ciò che è realmente accaduto il 7 ottobre e di prove che i leader di Hamas - a differenza di altre entità della resistenza palestinese, come la Jihad islamica - siano stati adeguatamente individuati.
Non deve sorprendere che gli Stati Uniti siano balzati in difesa di Israele, unendosi a un attacco piuttosto insensato alla credibilità di questo tribunale globale basato su un trattato, che ha il mandato di indagare e prendere provvedimenti contro i responsabili di crimini internazionali.
Sebbene i funzionari statunitensi si lamentino ora degli ostacoli giurisdizionali all'incriminazione di cittadini di Paesi che non sono firmatari dello Statuto di Roma della CPI, Washington ha sostenuto con entusiasmo la frettolosa incriminazione del Presidente russo Vladimir Putin subito dopo l'invasione dell'Ucraina nel 2022. Questi due pesi e due misure mostrano ipocrisia morale e nichilismo giuridico, con gli Stati Uniti che invocano le procedure internazionali come strumenti di politica estera piuttosto che come norme universalmente applicabili.
Dichiarazione irrilevante
Con una frase ad effetto che avrebbe potuto provenire dal governo israeliano, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha dichiarato lunedì: “Qualunque cosa questo procuratore voglia implicare, non c'è alcuna equivalenza - nessuna - tra Israele e Hamas”. Ha corroborato questa dichiarazione giuridicamente irrilevante con l'affermazione categorica che “saremo sempre al fianco di Israele contro le minacce alla sua sicurezza”.
Anche in questo caso, l'argomento è irrilevante. L'unica questione è se le prove supportano l'emissione di mandati di arresto. Ribadendo una posizione così unilaterale, Biden rafforza le lamentele dei manifestanti di tutto il mondo, secondo i quali Washington è complice del genocidio più trasparente che sia stato osservato in tempo reale, e non a posteriori o in astratto, come è accaduto anche con l'Olocausto.
Ironia della sorte, la retorica fuori luogo dell'indignazione di Israele e dei suoi alleati ha conferito alle dichiarazioni della Corte penale internazionale un'importanza che l'istituzione non aveva mai avuto prima.
Sotto il fumo delle polemiche c'è il fuoco di una massiccia campagna di terrorismo di Stato che all'inizio è stata presentata come violenza difensiva e di reazione, ma che ben presto ha mostrato la sua vera natura di violenza premeditata e di volontà si trasferimento forzato dei palestinesi a Gaza, obiettivi sempre più lontani dalle reali preoccupazioni di sicurezza di Israele.
Nelle polemiche degli ultimi mesi è stato dimenticato anche il contesto in cui il governo Netanyahu ha operato prima dell'attacco di Hamas. Anche in Occidente, questa coalizione di governo è stata descritta come la più estrema nella storia di Israele. Questa fama deriva dal suo sforzo non celato di avviare una campagna, guidata dai coloni, per rendere la vita il più invivibile possibile ai palestinesi nella Cisgiordania occupata, espressa da un messaggio trasmesso in vari modi che si può riassumere in: “Andatevene o vi uccidiamo”.
Il governo israeliano, compresi i ministri estremisti Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, ha dato il via libera a questa violenza come parte del suo obiettivo prioritario di stabilire unilateralmente la Grande Israele e porre fine a tutte le prospettive palestinesi di statualità o di qualsiasi forma significativa di autodeterminazione.
Fallimenti multipli
Inoltre, il fatto che Israele avesse ricevuto un preavviso sulla pianificazione e preparazione di un attacco di Hamas, che possegga elaborate capacità di sorveglianza e disponga di informatori, ma abbia reagito all'attacco con un'incompetenza senza precedenti, rende difficile credere che uno scenario di risposta massiccia non fosse già stato concordato dalla leadership israeliana prima che un solo ostaggio fosse sequestrato.
Quando la rappresaglia israeliana è iniziata, è stata immediatamente intrisa di tattiche e linguaggio genocidi, comprese le politiche per privare i palestinesi di Gaza di cibo, carburante, elettricità e acqua. I fatti più evidenti sono stati i trasferimenti forzati dei palestinesi dal nord al sud di Gaza, i raccapriccianti attacchi agli ospedali e ai centri abitati, l'uso della fame come arma di guerra e i continui sforzi per indurre l'Egitto e altri Paesi ad accogliere un gran numero di rifugiati palestinesi.
La prolungata campagna sembra essere diventata sempre più autodistruttiva dal punto di vista della sicurezza israeliana. Molti israeliani ritengono che la leadership di Netanyahu sia responsabile del fallimento di molteplici fallimenti: distruggere Hamas, ottenere il ritorno sicuro degli ostaggi e preservare la reputazione del Paese come legittimo Stato sovrano.
La leadership di Biden, con la sua posizione di sostegno incondizionato a Israele e la denuncia irresponsabile della Corte penale internazionale, ha voltato le spalle alla sua stessa generazione più giovane, scatenando la brutalità della polizia e azioni punitive contro l'attivismo pro-palestinese. È stato totalmente irresponsabile fingere che le accuse di genocidio rivolte a Israele non abbiano alcun valore legale; il suo comportamento alle Nazioni Unite ha danneggiato il diritto internazionale e il carattere delle democrazie liberali moraliste.
Anche il procuratore della Corte penale internazionale è meritevole di critiche. Non c'è una vera e propria equivalenza tra l'attacco singolo del 7 ottobre, nonostante le sue atrocità, e la campagna israeliana di sette mesi di morte e devastazione a Gaza.
Nel tempo, sospetto che il mancato riferimento al “genocidio” sarà considerato la debolezza più scioccante della dichiarazione formale del procuratore.
Come minimo Khan avrebbe dovuto spiegare perché sarebbe stato legalmente prematuro includere questa accusa più grave e diffusa contro Israele tra i motivi per raccomandare alla CPI di emettere mandati di arresto per Netanyahu e Gallant. Evitando di menzionare il genocidio, Khan può essere giustamente accusato di aver ignorato l'elefante nella stanza.
Nel frattempo, dovremmo sperare che la giuria accetti la raccomandazione dei pubblici ministeri ed emetta i mandati contro i leader israeliani e di Hamas, facendo del proprio meglio per cancellare l'impressione di equivalenza. Se la Corte penale internazionale si atterrà alla sua posizione di principio, migliorerà la sua reputazione di dimensione della governance globale non contaminata dalla geopolitica di parte.
Richard Falk è uno studioso di diritto internazionale e relazioni internazionali che ha insegnato per quarant'anni all'Università di Princeton. Nel 2008 è stato nominato dalle Nazioni Unite relatore speciale per i diritti umani dei palestinesi per un periodo di sei anni.
Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze