Dalle concessioni asimmetriche alla rinuncia alla lotta armata, il destino dei palestinesi era già segnato prima ancora che Arafat e Rabin si stringessero la mano.
di Raef Zreik
+972, 11.09.2023
Gli accordi di Oslo sono stati negoziati quando ero un giovane avvocato all'inizio della mia carriera, dopo anni di vita da studente a Gerusalemme all'ombra della Prima Intifada. Avevo lasciato la città nel 1990, logorato non poco dalla stessa Gerusalemme, dalla tensione costante e dall'intensa attività politica contro l'occupazione. Non c'è quindi da stupirsi che, nonostante la mia condanna di Oslo, quei giorni mi abbiano comunque dato un piccolo barlume di speranza: forse, dopo tutto, stava nascendo qualcosa di nuovo. Ma per quanto desiderassi che l'accordo funzionasse, la mia mente mi diceva altrimenti.
All'epoca, tra l'opinione pubblica palestinese c'era ogni tipo di opposizione a Oslo. Fin dall'inizio, alcuni palestinesi non credevano nella soluzione dei due Stati e la vedevano come una sconfitta per la causa palestinese. Io non ero tra questi: piuttosto, la mia opposizione a Oslo derivava dalla convinzione interiore che gli accordi stessi non potessero effettivamente portare a tale soluzione. Non mi sono fatto influenzare da ciò che si diceva in televisione o nel discorso pubblico; mi sono invece seduto e ho letto gli accordi con gli occhi di un giovane avvocato. Dopotutto, un accordo politico è un accordo che contiene una propria logica contrattuale: stabilisce un calendario preciso, ci sono regole in caso di violazione del contratto e così via. Mi è sembrato che i negoziatori palestinesi avessero bisogno di un po' di consulenza legale.
Ci sono tre problemi centrali nella formulazione degli Accordi di Oslo, come si può capire dallo scambio di lettere tra il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina Yasser Arafat, che ha preceduto la firma degli Accordi sul prato della Casa Bianca il 13 settembre 1993.
Il primo problema è uno squilibrio nel riconoscimento della legittimità dell'altra parte. L'OLP ha riconosciuto Israele e il suo diritto di esistere e ha riconosciuto le risoluzioni 242 del Consiglio di Sicurezza (che chiedeva il ritiro dei soldati israeliani dai territori occupati e riconosceva la rivendicazione della sovranità, dell'integrità territoriale e dell'indipendenza politica di ogni Stato della regione dopo la guerra del 1967) e 338 (che chiedeva un cessate il fuoco dopo la guerra del 1973). In cambio, però, Israele non ha riconosciuto il diritto del popolo palestinese a uno Stato o il suo diritto all'autodeterminazione. Al contrario, ha semplicemente riconosciuto l'OLP come unico rappresentante del popolo palestinese.
Questa mancanza di equivalenza lasciava l'OLP poco più che un contenitore vuoto; dopo tutto, c'è una differenza tra riconoscere l'esistenza dell'OLP e riconoscere la legittimità delle sue richieste politiche. Inoltre, all'epoca, Israele aveva un interesse strategico a riconoscere l'OLP come unico rappresentante del popolo palestinese. Se Israele lo avesse fatto, il riconoscimento dell'OLP del diritto all'esistenza di Israele avrebbe rappresentato la voce dell'intera nazione palestinese. Il riconoscimento di Israele da parte dell'OLP sarebbe stato privo di significato se non fosse venuto da un rappresentante autentico.

In quest'ottica, la natura strumentale dell'OLP come organismo rappresentativo è chiara. Un rappresentante può agire nell'interesse o a scapito di chi rappresenta. Il rappresentante può avanzare richieste alla controparte, ma può anche fare concessioni per conto delle persone che rappresenta. Quando l'OLP ha presentato rivendicazioni e richieste chiare, Israele ha negato le sue richieste, ma quando ha riconosciuto Israele e offerto concessioni per conto dei palestinesi, Israele non ha avuto problemi a trattare l'OLP come portavoce dei palestinesi.
Di fatto, l'OLP ha usato il suo capitale simbolico come rappresentante del popolo palestinese per apparire sulla scena mondiale e annunciare l'assenza del popolo e l'eliminazione della sua narrativa. In effetti, questo è stato l'ultimo atto significativo dell'OLP nell'arena politica. Israele intendeva che il riconoscimento dell'OLP agisse come una dichiarazione de facto del proprio suicidio. Da allora, l'OLP ha cessato di essere un importante attore politico e tutto ciò che ne rimane funzionalmente è l'Autorità Palestinese, che funge da subappaltatore di Israele per le violente repressioni in Cisgiordania.
Due anni dopo la firma degli Accordi, l'OLP si è impegnata ad annullare le sezioni della Carta nazionale palestinese che non riconoscono Israele. All'epoca, mi sembrò una mossa sconsiderata; pubblicai un articolo su Haaretz intitolato "Non c'è compromesso senza riconoscimento". L'annullamento delle dichiarazioni della Carta è avvenuto senza alcuna azione da parte di Israele, che ha rifiutato di impegnarsi a riconoscere uno Stato palestinese nei territori occupati o il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese e altri diritti nazionali nella sua patria.
Questi fattori storici hanno contribuito a creare la situazione attuale, in cui Israele è un "fatto sul terreno" inamovibile e ha ristretto la portata del territorio sul tavolo dei negoziati dall'intera Israele/Palestina alla sola Cisgiordania, ora l'unico territorio anche solo lontanamente in discussione. Se la disputa riguarda la Palestina nel suo complesso, allora la divisione dell'intero territorio dal fiume al mare in due entità è la soluzione ottimale. Ma se l'intero problema si riduce ai territori occupati nel 1967, allora una soluzione ragionevole porterebbe alla divisione del territorio conteso tra coloni e palestinesi.
Questo restringimento del territorio in discussione altera drasticamente il campo di gioco: se i palestinesi insistono nel controllare la totalità dei territori occupati, saranno percepiti come radicali ostinati che rivendicano tutto per sé. Non viene mai preso in considerazione il fatto che i palestinesi abbiano già rinunciato al diritto a più di due terzi della loro patria prima ancora di sedersi al tavolo dei negoziati. Questa è stata una trappola tesa ai palestinesi, che ancora oggi non sono riusciti a liberarsene. Purtroppo, non è l'unica trappola di questo tipo.

Lavoratori palestinesi attraversano il checkpoint di Eyal a Qalqilya nelle prime ore del mattino per raggiungere il proprio posto di lavoro oltre la Linea Verde, Cisgiordania occupata, 10 gennaio 2021. (Keren Manor/Activestills)
"Terroristi" autoproclamati
Recentemente, un coro crescente di voci critiche ha chiesto che l'OLP ritiri il suo riconoscimento di Israele, poiché Israele non ha rispettato le condizioni degli accordi di Oslo. Ma questa è una richiesta pericolosa. Il riconoscimento, per sua natura, è una tantum e non può essere ritirato. Inoltre, il riconoscimento non è un bene materiale e tangibile: la sua importanza risiede nel suo simbolismo e, in assenza di tale simbolismo, è privo di significato.
Se i palestinesi vogliono ritirare il riconoscimento, non potranno mai più scambiarlo con il ritiro di Israele dai territori sotto il suo controllo, poiché gli israeliani non crederanno mai che il riconoscimento non verrà nuovamente revocato.
Lo scambio di lettere tra Arafat e Rabin comprendeva anche una clausola in cui l'OLP si impegnava a rinunciare al terrorismo, e non solo a condannarlo. Cioè, l'OLP stessa accettava di chiamare "terrorismo" la sua lotta fino a quel momento. Ciò ha posto diversi problemi, ma vorrei concentrarmi su uno in particolare. Non ho intenzione di fare un dibattito sulla definizione di terrorismo. Il problema è piuttosto legato al futuro: cosa succederà se Israele non accetterà di ritirarsi dai territori occupati o di trovare una soluzione a due Stati? Quali saranno i mezzi a disposizione dei palestinesi nella loro lotta contro l'occupazione?
La difficile risposta a queste domande è diventata dolorosamente evidente alla fine degli anni Novanta. Israele ha interrotto il processo di Oslo e ha continuato a espandere il progetto di insediamento. Non era affatto chiaro dove il processo di Oslo avrebbe portato e quale sarebbe stata la soluzione definitiva. Israele controllava la terra, l'aria, i confini, l'acqua e tutte le risorse e si limitava a cedere all'Autorità palestinese la gestione di parti della popolazione sotto occupazione; in altre parole, Israele manteneva il controllo effettivo, ma scaricava tutte le responsabilità sulle spalle dell'Autorità palestinese. Inoltre, l'accordo non includeva una clausola esplicita che proibisse la continuazione della costruzione di insediamenti nei territori occupati.

Un manifestante di Deir Jarir sventola una bandiera palestinese dopo una marcia contro la costruzione su terra palestinese da parte dei residenti dell'insediamento ebraico di Ofra, Cisgiordania occupata, 26 aprile 2013. (Issam Rimawi/Flash90)
In queste condizioni, i palestinesi non possono né avanzare verso uno Stato indipendente né tornare alla logica della rivoluzione e della lotta armata. Non solo non hanno ancora il potere e l'organizzazione per farlo, ma sono anche concettualmente intrappolati dagli accordi di Oslo. Il mondo - soprattutto Israele, Unione Europea e Stati Uniti - ha riconosciuto l'OLP sulla base della rinuncia al terrorismo e dell'accettazione di alcune regole del gioco. Pertanto, il ritorno alla lotta armata è inevitabilmente visto come un ritorno al terrorismo - solo che questa volta saranno i palestinesi stessi a dare un nome alla loro lotta, e loro stessi l'hanno chiamata terrorismo. Ora anche il resto del mondo è autorizzato a chiamarlo terrorismo.
Il linguaggio del "terrorismo" si è trasformato tra la Prima e la Seconda Intifada. La Prima Intifada è iniziata a una generazione dall'inizio dell'occupazione, quindi il mondo ha visto in essa e nella più ampia lotta palestinese una risposta legittima al dominio militare. La Seconda Intifada, nata come risposta alla massiccia violenza israeliana in seguito alla visita del Primo Ministro Ariel Sharon a Haram al-Sharif/Monte del Tempio nel settembre 2000, si è svolta sullo sfondo dei colloqui di pace di Oslo. Per la maggior parte, gli osservatori internazionali considerarono ogni pietra lanciata durante la Prima Intifada come lanciata contro l'occupazione e a favore della liberazione nazionale, ma il lancio di pietre avvenuto dopo Oslo fu considerato "terrorismo".
Il contesto era cambiato e con esso il significato della resistenza palestinese. Il risultato è stato che i colloqui di pace con Israele non hanno raggiunto alcun obiettivo, ma anche il ritorno alla lotta armata è problematico. I palestinesi sono in trappola.
Non ho intenzione di proporre un manifesto per il futuro, ma credo che l'idea di tornare indietro, di ricostituire l'OLP e di ritornare ai principi su cui l'organizzazione è stata fondata 60 anni fa, sia ormai fuori discussione. Da questo punto possiamo solo andare avanti.
L'OLP ha fatto il suo lavoro: ha impresso la parola "Palestina" nella coscienza del mondo e ha dimostrato che esiste un popolo palestinese. La generazione di oggi ha un ruolo diverso in una realtà diversa: redigere un nuovo manifesto con la consapevolezza che tra il mare e il fiume ci sono 7 milioni di ebrei e 7 milioni di palestinesi, e che gli israeliani controllano i palestinesi e mantengono un regime di supremazia ebraica che espelle questi ultimi dalla loro terra ogni singolo giorno. Questo è il nostro punto di partenza.
Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze