Una battaglia legale che dura da 47 anni per un appartamento nel quartiere musulmano di Gerusalemme doveva concludersi questa settimana con lo sfratto di una coppia di anziani palestinesi. La burocrazia ha ritardato l'esecuzione dell'atto, ma la polizia continua a perseguitare la coppia.
di Gideon Levy
Haaretz, 16.06.2023
L'esistenza dell'apartheid in Israele può essere dimostrata con un condizionatore d'aria. Un semplice apparecchio che soffia aria fresca d'estate e calda d'inverno, affisso alla parete di un appartamento con poche finestre, e di cui gli occupanti, una coppia anziana e malata, avrebbe bisogno.
Qualche anno fa, Norat Gheith Sub Laban, 68 anni, e Mustafa Sub Laban, suo marito di 74 anni, hanno installato un condizionatore d'aria nel loro piccolo appartamento di Gerusalemme. Poco tempo dopo, però, sono stati costretti a rimuoverlo per ordine delle autorità israeliane, con la motivazione che l'edificio in cui vivono è una struttura storica in cui è vietato installare un condizionatore. I "proprietari dell'appartamento", cioè lo Stato di Israele, non hanno permesso l'installazione di un simile dispositivo. Il condizionatore è stato strappato dal muro, mentre la nicchia è rimasta.
Ora un condizionatore simile è visibile sul muro esterno dell'appartamento dei vicini, la famiglia Friedman. Improvvisamente l'edificio non è più storico. Un condizionatore ebraico orgoglioso e provocatorio sporge dal muro dell'antica struttura musulmana, come a dire: l'apartheid è vivo e vegeto qui. Ciò che è permesso agli ebrei è vietato ai palestinesi.
Qui va bene sfrattare dalle loro case centinaia di famiglie palestinesi in disgrazia e indigenza, perché prima del 1948 le abitazioni erano di proprietà degli ebrei. Ma nessuno prende in considerazione l'idea di fare lo stesso per i palestinesi che hanno perso le loro proprietà nello stesso anno, nelle stesse circostanze, nella stessa città. E tutto questo avviene, ovviamente, con l'ampia autorizzazione a tutti i livelli da parte del prestigioso sistema giudiziario israeliano, sulla cui autonomia si sta oggi combattendo una grande battaglia nella società israeliana. Gli ebrei possono tornare alle proprietà che hanno perso a Gerusalemme Est, ma i palestinesi non possono tornare alle case che hanno perso nella parte occidentale della città, con l'approvazione del tribunale. Questo non sarebbe apartheid? E allora cos'è?
Secondo le Nazioni Unite, 218 famiglie, quasi 1.000 individui, rischiano di essere sfrattate in modo simile a Gerusalemme. Fuori dalla casa della famiglia Sub Laban, la settimana scorsa i coloni hanno gridato: "Il quartiere musulmano è ebraico!". Aspettatevi che quello che è successo a Hebron si ripeta qui. "Dio è il Re", ha scritto qualcuno a caratteri cubitali in ebraico di fronte alla casa della famiglia Sub Laban, al 33 di Aqbat Al Khalidiyah Street, nel cuore del quartiere musulmano. Sul muro c'è una targa che ricorda Eliyahu Amedi, assassinato qui nel 1986. La municipalità di Gerusalemme permetterebbe di appendere una targa simile per commemorare Eyad al-Hallaq, il palestinese disabile che gli agenti di polizia israeliani hanno ucciso davanti alla Porta di Damasco nel 2020? O una per Mohammed Abu Khdeir, l'adolescente che gli ebrei hanno bruciato vivo nella foresta di Gerusalemme nel 2014?
Le lenzuola della famiglia Sharabi, i coloni del piano superiore, sventolano nella brezza sopra il piccolo balcone che ancora per qualche giorno appartiene alla coppia palestinese. L'edificio al numero 35 di Aqbat Al Khalidiyah Street, lì accanto, è già caduto completamente in mani ebraiche; al numero 33 la famiglia Sub Laban è l'unica superstite. Nell'appartamento di fronte al loro vivono Roni e Hadar Friedman, il magazzino dei Sub Laban è diventato l'appartamento della famiglia Wermesser e, come già detto, gli Sharabi sono al piano superiore.
I vicini del piano di sopra hanno demolito la bella e antica cupola di pietra dell'edificio per creare un balcone, distruggendo così - certamente in violazione della legge - un altro antico gioiello architettonico, ma cosa importa? I coloni hanno ristrutturato i loro appartamenti, ma Norat e Mustafa non possono aggiustare nulla e l'intonaco delle pareti della loro casa si sta scrostando. Porte elettriche intelligenti chiudono i colonizzatori nei loro appartamenti; alcuni di loro girano armati di pistola.
Martedì di questa settimana, gli agenti di polizia sono arrivati di nuovo a casa di Norat e Mustafa, come fanno quasi ogni giorno, per curiosare, controllare e soprattutto per molestare e intimidire. Il figlio maggiore della coppia, Ahmad, ha chiesto a uno degli agenti: "State controllando tutte le case di Gerusalemme Est?". La risposta è stata: "Cerchiamo di identificare tutti i residenti". Ahmad, che lavora per Ir Amim, un'organizzazione senza scopo di lucro che lavora per promuovere le cause dell'uguaglianza e della sostenibilità a Gerusalemme per gli israeliani e i palestinesi che vi abitano, ha risposto: "Fantastico. Non lo sapevo. Che bravi ragazzi".
Alla fine del mese, Norat e Mustafa non saranno più qui. Una battaglia di 47 anni contro la burocrazia dell'occupazione si concluderà con una dolorosa sconfitta. Ma il fratello di Norat, Anwar Gheith, espulso da questo edificio molti anni fa, durante la sua ultima visita ha scritto sul muro del soggiorno: "Torneremo". Tra le altre dichiarazioni che compaiono sul muro c'è: "La Palestina sarà libera".
Nel frattempo, i Sub Laban cercano di rimanere saldamente aggrappati alla loro casa, fino all'ultimo minuto. Le uniche cose che hanno rimosso sono le fotografie, ricordi che non possono essere sostituiti. Hanno lasciato tutto il resto delle loro cose, anche se sanno che la fine è vicina. Ogni volta che qualcuno bussa alla porta la coppia sobbalza; Norat dice che il suo cuore batte ad ogni rumore. Sanno che la polizia sta arrivando. Norat ci mostra un frigorifero pieno, per dimostrare che non si sono ancora arresi. Il loro è un appartamento di 67 metri quadrati, diviso in due stanzette, il cui ingresso originale è stato bloccato dai poco rispettosi vicini, e che ha urgente bisogno di essere ristrutturato, viste le pareti ammuffite e le scale strette. Qui è nata Norat e qui, a quanto pare, non morirà.
Norat e Mustafa sono una coppia sobria e rispettabile, genitori di cinque figli. Mustafa è stato un membro della polizia israeliana. Questa settimana si è trovato a lungo costretto a letto, nella piccola camera da letto, dopo essere stato portato due volte all'Hadassah Medical Center nel quartiere Ein Karem della città, per essere sottoposto a cateterismo cardiaco. Il suo cuore è stato indebolito anche dalle tensioni delle ultime settimane. Durante la nostra conversazione, Norat ha dovuto usare un inalatore.
Fuori, una guida turistica dei coloni spiega a un gruppo australiano il diritto degli ebrei al quartiere musulmano. Rifaat, 34 anni, figlio minore di Norat e Mustafa, impiegato presso l'ufficio dell'agenzia delle Nazioni Unite per i diritti umani a Ramallah, cerca di correggere la propaganda della guida e gli australiani sono pronti ad ascoltare. Di fronte alla casa della famiglia Sub Laban si trova anche una yeshiva della setta chassidica Bratslav e un cartello che segnala la sinagoga Tzuf Dvash di Eidat Hama'aravi'im, risalente al XIX secolo.
Un giovane haredi usa una chiave elettronica per aprire la porta dell'appartamento dei Wermesser. Dal canto loro, i Friedman vivono qui dal 1984, quando hanno rilevato l'appartamento della famiglia Karaki. Il bucato degli Sharabi pende così in basso rispetto alla casa dei Sub Laban che questi ultimi devono chinarsi quando sono sul balcone. Qui i rapporti di vicinato sono inesistenti. Norat dice di vedere l'odio negli occhi dei coloni, "come bestie selvagge".
La storia dell'estenuante e interminabile battaglia legale della famiglia, durata 47 anni e migliaia di ore in tribunale, è stata raccontata in queste pagine da Amira Hass all'inizio di quest'anno. A partire dal possesso precedente al 1948, attribuito a Samuel Moshe Ben David Shlomo Gangel, che possedeva l'edificio alla fine del XIX secolo, passando per il Custode delle proprietà nemiche del Regno Hashemita di Giordania, fino all'ingresso dei genitori di Norat nell'edificio nel 1949 come inquilini protetti. Dal Custode israeliano delle proprietà assenti, attraverso il rilascio della proprietà nel 2010 alla "Little Galicia Endowment", fino ad Aviezer Zelig Asher Shapira, Joshua Heller e Avraham Avishai Zinwirth, i misteriosi individui che hanno rivendicato l'edificio attraverso un funzionario dei coloni, Eli Attal, che gestisce ovunque l'esproprio nella Città Vecchia; da Shuvu Banim a Ateret Kohanim e Ateret Leyoshna, le arcane organizzazioni non profit dei coloni (le differenze fra loro sono impercettibili).
La lotta dei Sub Laban ha attraversato tutte le istanze legali, arrivando fino alla Corte Suprema, e in ultima istanza si è conclusa con una decisione del 2016 che ha permesso alla coppia di rimanere nell'appartamento per altri 10 anni, partendo dal presupposto che i due sarebbero deceduti, se Dio avesse voluto. Ai loro figli è stato a lungo vietato di vivere nella casa. Ma, come spiega Rifaat, ogni pronunciamento del tribunale lasciava sempre uno spiraglio per una nuova decisione, che in effetti non ha tardato ad arrivare - sotto forma dell'ultimo, e definitivo, ordine di sfratto immediato.
Rifaat definisce il sistema legale israeliano "il tribunale dei coloni". Le decisioni riguardanti l'appartamento dei suoi genitori dimostrano quanto abbia ragione. In un caso, un giudice della Corte Magistrale di Gerusalemme ha dovuto saltare il muro dei vicini coloni per poter entrare nella casa dei Sub Laban, poiché ha insistito nel vedere con i propri occhi che i coloni avevano effettivamente bloccato l'ingresso, dopodiché ha emesso una sentenza che consisteva in complicate procedure ingegneristiche per consentire alla coppia di entrare nella loro casa.
In un'altra occasione, la coppia è stata accusata di non risiedere nell'appartamento. Ciò è accaduto quando il Comune ha decretato la necessità di ristrutturarlo perché era diventato pericoloso da abitare. Quando la coppia si è trasferita temporaneamente durante i lavori di ristrutturazione, il "Custode dei Beni Assenti" ha vietato i lavori di ristrutturazione e impedito loro di tornare. In un'altra occasione, quando Norat si è trasferita per alcuni mesi per vivere con il figlio - a cui non era permesso vivere nell'appartamento - perché aveva un'ernia del disco e aveva bisogno di aiuto per muoversi, i coloni l'hanno denunciata alle autorità; è stata costretta a portare la documentazione delle autorità mediche per poter tornare a casa sua.
Kafka vive anche al 33 di Aqbat Al Khalidiyah Street, nella Città Vecchia di Gerusalemme.
E ora la lettera dell'ufficio dell'ufficiale giudiziario, datata 4 maggio 2023: "Con la presente si informa che l'esecuzione dell'ordine di sfratto è fissato per l'11 giugno 2023, a partire dalle 8 del mattino". L'11 giugno alle otto del mattino è passato questa settimana - mancava un modulo, è stato detto alla famiglia. Prima di allora, lo sgombero era stato fissato per il 15 marzo 2023, ma la polizia si era opposta per mancanza di personale.
I richiedenti hanno chiesto un "ordine di sfratto flessibile", che consente un certo intervallo di giorni per eseguire il lavoro, ed è stato concesso. L'espulsione dovrebbe avvenire tra l'11 e il 26 giugno - oggi, domani o qualche giorno dopo. Rifaat è certo che la polizia non li stia aggiornando sui piani esatti come parte della guerra psicologica pensata dalle autorità per logorarli. Ritiene che la polizia stia aspettando un momento propizio in cui non ci saranno troppe persone in casa - senza i diplomatici stranieri, gli attivisti o i molti giornalisti che hanno visitato la casa nel corso di questi anni di lotta. La famiglia dovrà pagare 30.000 shekel (8.450 dollari) per il proprio sfratto, poiché non se ne andrà di propria volontà.
Nel frattempo, Norat e Mustafa vivono con pillole ansiolitiche. L'esito della battaglia è deciso.
Non hanno mai pensato di andarsene? Norat: "Risponderò con una domanda. Se tu fossi nato in questa casa, e tutti i tuoi fratelli e sorelle ci fossero nati, cresciuti e sposati, se tua madre e tuo padre ci fossero morti, se tuo fratello ne fosse stato esiliat ti arrenderesti e la abbandoneresti? Voglio una risposta. Ogni minuto che rimango in questa casa è un altro minuto di protezione dei miei ricordi d'infanzia. Ogni minuto è sentirsi abbracciati dai membri della famiglia che non sono più con noi. Non sono mai sola in questa casa, anche quando sono da sola: tutta la mia famiglia e tutti i miei ricordi sono sempre con me in questa casa."
"Se vengono a sfrattarci, non aprirò la porta. Ma se sento un pericolo per me e per mio marito, mi arrenderò e rinuncerò per salvaguardare la mia famiglia. Se mi sfrattano, darò la casa a Dio. Questa casa rimarrà una prigione finché non sarà liberata. Tornerò. E se non io, i miei figli. Un giorno l'occupazione finirà e noi torneremo".
Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze