Gli israeliani non capiscono la profondità della nostra rabbia e tristezza. Per noi palestinesi, Shireen Abu Akleh era una leggenda
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Hanin Majadli -12 maggio 2022
Mi ricordo come da ragazza, dopo la seconda intifada, in piedi davanti allo specchio, con in mano una spazzola per capelli o un telecomando, imitavo la voce profonda e pacata con cui Shireen concludeva i suoi reportage: Shireen Abu Akleh, Al Jazeera, Palestina.
Quell’iconica frase di chiusura, uno slogan che ogni bambino o adolescente palestinese cresciuto all’ombra della seconda intifada nei primi anni 2000 associava alla giornalista di Al Jazeera, mercoledì ha assunto un nuovo significato: doloroso, straziante e sanguinante. Chi avrebbe mai creduto che la donna con questa voce profonda e coraggiosa ci avrebbe lasciato così presto, in un modo così crudele.
Mentre leggevo gli elogi funebri, i post sui social media e le reazioni alla sua morte, mi sono resa conto che non c’è quasi ragazza araba al mondo che non sia rimasta in piedi davanti a uno specchio, una spazzola per capelli o un telecomando in mano, a pronunciare quelle parole.
Abu Akleh non era solo una giornalista molto professionale o una grande reporter, era la voce della mia generazione. Ha plasmato in larga misura la nostra coscienza politica e nel corso di due decenni è stata un valido modello per impegno, professionalità, onestà, umanità e qualità. Non c’è da stupirsi che sia diventata un’icona.
Ogni volta che c’era un’operazione militare, o una guerra, o un’incursione dell’esercito israeliano in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza, la sua voce diventava la nostra colonna sonora. Negli anni precedenti la rivoluzione delle comunicazioni e degli smartphone, era lei l’obiettivo attraverso il quale abbiamo visto svolgersi la seconda intifada. Per molti aspetti, durante quei tempi difficili, era la personalità palestinese più importante che ci fosse, colei che il mondo intero ascoltava e vedeva giorno dopo giorno e attraverso la quale venivano mostrate le ingiustizie dell’occupazione. Per me era una presenza ancor prima che capissi cosa significasse l’occupazione.
È stato da Al Jazeera e da Abu Akleh che ho appreso per la prima volta dei campi profughi. Ci ha portato i volti, le persone, i bombardamenti e, soprattutto, la verità (tutto ciò che non veniva trasmesso dalla televisione israeliana). Attraverso di lei ho visto persino i paesaggi della Cisgiordania.
Oggi ricordo in particolare i suoi reportage dal campo profughi di Jenin – non solo perché i suoi dispacci da lì rendevano molto difficile la visione per un giovane, o perché era il luogo in cui ha incontrato la sua morte, ma piuttosto perché mi sono resa conto di come i suoi abitanti sono stati gentili con lei. Era stata con loro per 20 anni e hanno insistito affinché il suo corteo funebre partisse dal campo. Non era solo colei che li aveva raccontati, era diventata la loro voce.
Gli israeliani non capiscono la profondità della nostra rabbia e tristezza. Per noi palestinesi, Shireen Abu Akleh era una leggenda. L’intera nazione palestinese, nella sua patria che si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, sia in esilio che nella diaspora, nei villaggi, nelle città e nei campi profughi, prova un senso di dolore collettivo. Questo è il motivo dei tanti tributi, delle manifestazioni ovunque. Shireen Abu Akleh era la voce del palestinese che non ha voce. La sua perdita è così grave e così profonda che, nonostante tutto ciò che è stato scritto, non riesco a esprimerla adeguatamente a parole.
Concludo con una frase che aveva detto in un video pubblicato sul sito di Al Jazeera ad ottobre: “Ho scelto il giornalismo per essere vicino alle persone e sapevo che non sarebbe stato facile cambiare la situazione. Ma almeno sono riuscita a portare le voci dei palestinesi nel mondo”.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org