La mia Intifada: memorie di una storia non-palestinese, in una lattina di tonno. Di Susan Abulhawa

 

 di Susan Abulhawa

Internazionale 1237, 29.12.2017

 Questo racconto è tratto dal numero speciale di Internazionale sulla letteratura palestinese, curato da Souad Amiry, in edicola dal 29 dicembre. Disegno di Gabriella Giandelli

 

Ero una ladra.

Umm Hassan, la nostra cuoca buona, non me lo diede, il tonno. Ne sono sicura, perché in quel caso mi avrebbe dato anche qualcosa per aprirlo. E invece eccomi lì, quella sera, che mi nascondevo in una delle aule deserte con la mia scatoletta di tonno rubata. Era il 1982 o il 1983 a Dar al-Til al-‘Arabi, un orfanotroio per ragazze di Gerusalemme Est. Si stava facendo tardi. In quell’angolino di ricordo, il cielo era di un blu grigiastro ed eravamo già chiuse dentro per la notte. Non potevamo sostare nelle aule dopo l’orario delle lezioni, mentre di giorno, durante le lezioni, era vietato restare nei dormitori. Quando le aule erano aperte i dormitori erano chiusi, e viceversa.

Forse avevo pensato che Umm Hassan mi avrebbe dato il tonno se glielo avessi chiesto, perché spesso mi regalava sottobanco dei sandwich al formaggio. La prima volta era successo dopo che mi aveva vista fissare due alunne esterne, quelle che dopo scuola tornavano a casa. Al termine delle lezioni, avevano una famiglia che le aspettava. Mi immaginavo una madre affettuosa, in ansia per il ritorno della figlia, che abbraccia la sua bambina e poi si mette a fare cose da madre e figlia, risate, coccole, libri, cucina e gioie incredibili. Il padre che immaginavo, altrettanto magnifico, avrebbe guardato la figlia con occhi adoranti e orgoglio assoluto. Fissavo quelle alunne esterne trattenendo il mio disgusto all’idea che i padri potessero andar fieri di loro, con i brutti voti che portavano a casa. Io invece avevo sempre i voti più alti di tutta la classe: un padre del genere sarebbe stato davvero orgoglioso di me. Mi immaginavo le pietanze che mangiavano: deliziose, calde, sostanziose e con carne vera.

“Vieni con me, ragazzina”, disse Umm Hassan, sorprendendomi con l’invidia che mi usciva da tutti i pori mentre aspettavo che le alunne esterne finissero di mangiare i loro panini e se ne andassero, così avrei potuto raccattare le croste scartate.

Ipotizzai che Umm Hassan avesse sbirciato nei pensieri cattivi che stavo facendo su quelle ragazze, ma andai con lei perché facevo sempre quello che mi dicevano, altro motivo per cui ero io quella che meritava una bella famiglia che mi amasse. Prendevo buoni voti ed ero ubbidiente (la faccenda del tonno rubato non era nota e non doveva deporre a mio sfavore nell’elenco delle mie caratteristiche).

Seguii Umm Hassan nel dormitorio principale, dove mi fece aspettare all’ingresso mentre lei entrava in cucina. Ne uscì dopo qualche minuto con una mano dietro la schiena e si guardò attorno per vedere se qualcuno ci osservava, poi mi passò mezza pita farcita con formaggio spalmabile e cetriolo. “Te ne faccio ancora, quando vuoi. Non devi più mangiare gli scarti di nessuno, ragazzina”.

Non c’era abbastanza da mangiare perché Umm Hassan potesse fare quel favore a tutte, e così individuava alcune di noi per quegli spuntini clandestini. Sceglieva quelle più piccole, quelle che non sapevano cavarsela da sole o che avevano visibilmente fame ed erano malnutrite, e – cosa importantissima – quelle che non avrebbero spiferato tutto facendole perdere il posto.

Io non facevo mai la spia a nessuno e, per allungarlo, aggiunsi quella virtù al mio elenco in tre punti: Mai pettegola, Mai spia, Custode di segreti.

Mentre cercavo di aprire la lattina prendendo a martellate una forchetta con un sasso, l’acqua puzzolente di tonno schizzò fuori e mi colò sulle mani e i vestiti. Ero in quello stato quando sentii una delle ragazze che arrivava di corsa lungo il corridoio chiamandomi per nome. Quando mi vide si fermò di botto e fece: “Ah, eccoti qui! Ti conviene sbrigarti a tornare nel dormitorio. Sitt Hidaya ha mandato a dirti che Sitt Hind ti sta aspettando”. Mi invase un’ondata di terrore. Il cuore cominciò a battermi talmente forte che credetti mi volesse balzare fuori dal petto.

Devo essere rimasta impietrita, perché lei proseguì: “Susie, davvero, è meglio che vieni, prima che Sitt Hidaya ti trovi qui”.

Le sue parole mi calmarono un po’. A quanto pareva, Sitt Hidaya non sapeva che non ero nel dormitorio, quindi probabilmente non sapeva neanche del tonno. Ma avevo sentito bene, Sitt Hind voleva vedermi? Non aveva mai chiesto di vedermi. Sitt Hind era la fondatrice dell’orfanotroio e di rado aveva tempo per i dettagli quotidiani della nostra vita. Era sempre talmente occupata a raccogliere finanziamenti in giro che non pensavo volesse mai vedere nessuna di noi. Anzi, credevo che non sapesse neanche come mi chiamavo.

“Perché Sitt Hind vuole vedermi? Ha fatto proprio il mio nome? Susie?”, domandai.

“E io che ne so, idiota? Sono qui per salvarti la pelle da Sitt Hidaya. Se scopre quello che stai facendo, ti ammazza e ti dà in pasto agli asini. Dovresti ringraziarmi e andare di corsa a parlare con Sitt Hind, invece di fare domande cretine”, tagliò corto, e se ne andò.

Allontanai bruscamente la lattina di tonno, tutta ammaccata ma ancora chiusa, e le corsi dietro. Lei rientrò nel dormitorio e io mi diressi al piano di sotto, verso la porta di ferro nero che a quell’ora era sempre chiusa. Non avevo idea di come fare a uscire per andare a casa di Sitt Hind, che si trovava a pochi passi dal nostro ediicio.

Mentre mi avvicinavo, la porta si aprì. Espi, la mia amica che aveva svariati anni più di me, la tenne aperta. Espi era la nostra poliziotta non ufficiale. Godeva della piena fiducia della direzione e aveva in tasca le chiavi che aprivano quasi tutte le porte della scuola. E noi accettavamo l’autorità di Espi senza discutere, anche perché aveva a disposizione tutte le chiavi.

Mentre Espi si voltava per chiudere la porta dietro di me, mi domandai se mi avrebbero lasciato rientrare. Cominciai a preoccuparmi, ma comunque mi affrettai verso la casa di Sitt Hind, feci le scale di corsa e bussai alla sua porta.

In quell’istante mi resi conto di quanto puzzassi di tonno.

Non avevo neanche avuto il buonsenso né il tempo di lavarmi le mani, e quando Sitt Hind aprì la porta e mi disse di entrare restai lì in piedi senza far niente. Sembrava molto anziana e fragile, come quasi tutti gli adulti dai capelli grigi agli occhi dei bambini. A ripensarci, avrà avuto poco più di cinquant’anni. Era magra, con le guance lievemente incavate e portava un caschetto di capelli corto e ordinato. Il tempo, la guerra e l’occupazione militare le avevano affilato lo sguardo e le avevano infossato gli occhi. Il volto era solcato da rughe di espressione che parlavano di dignità e di un I cuore tormentato. Era sempre benvestita; anche quella sera, da sola in casa sua, indossava una semplice gonna sotto il ginocchio e una blusa elegante. Era una specie di divinità, e mentre le passavo accanto temetti che sentisse il puzzo di tonno che avevo addosso. Così restai lì in piedi sulla soglia troppo a lungo, guardandola e considerando il pasticcio in cui mi trovavo. Ma prima o poi avrei dovuto muovermi, e così entrai d’impeto e mi fermai lontano da lei. Strigevo i pugni per trattenere l’odore nelle mani, ma lo sentivo ancora, e più ci pensavo, più si faceva intenso. Perché non mi ero fermata a un lavandino per lavarmele? Adesso non potevo neanche stringere la mano a Sitt Hind, figuriamoci accettare il suo abbraccio quando mi si avvicinò a braccia aperte. Indietreggiai. Mi vergognavo da morire di quell’odore tremendo.

Non saprò mai il vero motivo per cui Sitt Hind mi aveva convocato a casa sua quella sera. Forse era per conoscermi meglio, visto che eccellevo in tutte le materie e spiccavo tra i miei compagni. Mi chiese come stavo. Poi mi chiese notizie di Amina, che un tempo era stata la sua pupilla, prima di crescere e diventare la donna che mi ha partorito.

Amina e due delle sue sorelle minori, le mie zie, erano vissute a Dar al-Til molti anni prima che nascessi. Capitava di rado che a Dar al-Til arrivasse una di seconda generazione, specie se la madre era un’alunna brillante come era stata la mia. Forse Sitt Hind era curiosa di sapere che fine aveva fatto la sua alunna di un tempo. Aveva istruito, sfamato e vestito mia madre e le mie zie quando mio nonno era morto e mia nonna, analfabeta, era stata costretta a emigrare in Kuwait per lavorare come cameriera per la moglie di uno sceicco del posto. Come faceva spesso per le studenti più promettenti, Sitt Hind andava a caccia di borse di studio per mandarle all’estero. Fu così che mia madre finì in Germania a studiare da infermiera. Era lì nel 1967, quando Israele si prese il resto della Palestina, Gerusalemme compresa, nella Guerra dei sei giorni. Non poté mai più tornare a casa e finì anche lei in Kuwait, dove i rifugiati palestinesi andavano a lavorare in massa per quattro soldi. Non so se in seguito Amina si sia mai messa in contatto con Sitt Hind: ne dubito. Non credo che Sitt Hind abbia mai saputo niente di lei per tredici anni, cioè fino a quando io, la primogenita di Amina, sono comparsa sul portone dell’orfanotroio.

Ma nel mondo arabo i venti del deserto soffiano sempre carichi di notizie e di voci. Il pettegolezzo è un elemento centrale della nostra società, e mia madre offriva molti spunti ai pettegolezzi. Questa è una cosa che ho ereditato da lei. Forse Sitt Hind sapeva che mia madre si era risposata e conduceva una vita agiata in Kuwait. Probabilmente sapeva perfino che mia madre mi aveva abbandonata piccolissima negli Stati Uniti e poi era tornata a prendermi quando avevo cinque anni. A quel tempo vivevo con mio zio a Charlotte, in North Carolina, in quello che spesso gli altri definivano un quartiere di bianchi sfigati. La moglie di mio zio, Mary, è stata la prima delle tante donne che ho chiamato Mama. Era cristiana evangelica e mi tirava su a forza di sermoni televisivi in cui Jim Bakker e Jerry Falwell promettevano il fuoco eterno ai peccatori.

Credo che Mary sia stata la prima persona a chiamarmi Susie, un diminutivo che è il mio nome molto più di quelli stampati sui miei documenti. Mary lavorava da Kmart al banco alimentari, e una delle più grandi gioie della mia vita, a quel tempo, era il privilegio di sapere quale palloncino gonfiato contenesse la tesserina blu che dava il diritto a un pasto gratis. Pagavo semplicemente cinque centesimi, sceglievo il palloncino segreto, lo facevo scoppiare e così vincevo un pasto gratis, fingendomi sorpresa ogni volta per evitare che Mama inisse nei guai. L’altra mia grande gioia era l’orgoglio di essere l’unica che, ogni due giovedì, aveva diritto a fare un giro insieme allo zio sul camion della nettezza urbana, quando passava a vuotare i cassonetti nella nostra via. Che aria importante aveva mio zio, con addosso la divisa uiciale, una tuta blu tutta sporca dei rifiuti altrui.

Grazie a quei miei primi anni negli Stati Uniti avrei parlato inglese con l’accento degli stati del sud, una cosa che molti anni dopo mi ha consentito di mettere a segno un’impresa da Oscar: a tredici anni sono riuscita a entrare negli Stati Uniti senza avere né passaporto né permesso di soggiorno. Ci sono riuscita proprio grazie a quell’accento perfetto, al buon cuore di due funzionari dell’ufficio immigrazione, al mio irresistibile sorriso di bambina e alla mia astuzia da superstite.

Di sicuro, Sitt Hind sapeva che avevo conosciuto mia madre a cinque anni e che lei mi aveva riportata con sé in Kuwait per poi lasciarmi a casa della nonna. Amina ci veniva a trovare, ma la maggior parte del tempo la passava in Arabia Saudita, dove faceva l’infermiera e abitava in un dormitorio insieme alla manodopera straniera, fino a quando si è risposata.

Non so che frottola abbia raccontato mia nonna a Sitt Hind per giustiicare la mia sistemazione a Dar al- Til anche se mia madre aveva chiaramente i mezzi per provvedere a me, specie visto che il suo nuovo marito in Kuwait era un personaggio importante con un sacco di stelline sull’uniforme militare. Sono sicura che mia nonna ha raccontato una storia convincente. Sono anche sicura che nessuno sapeva la verità (o almeno non tutta), perché sarebbero passati almeno altri vent’anni prima che dicessi a un altro essere umano che l’uomo con cui mia madre si era sposata mi aveva già molestato quando avevo sette anni, molto prima del loro matrimonio. E sarebbero passati almeno venticinque anni prima che riuscissi ad ammettere che a otto anni, dopo che mia madre aveva sposato il mio molestatore, ero diventata l’amante del mio patrigno.

Questo fino a quando non ho dato fuoco alla loro casa.

La reazione di lui a quell’incendio è stata la dimostrazione che il problema ero io. La gente elogiava il suo autocontrollo e la sua pazienza per non avermi dato la scarica di botte che meritavo, e per lo stesso motivo lo criticava. Dicevano che doveva proprio essere un santo per tollerare una piantagrane come me, che non ero neanche figlia sua. Dicevano che mia madre era fortunata ad aver trovato un uomo come lui. “Non l’ha nemmeno sgridata”, ha osservato una donna. E aveva ragione.

Il mio patrigno non mi ha mai detto una parola su quella faccenda. Ma nella fuliggine dei miei ricordi, un giorno i nostri sguardi si sono incrociati e lui mi ha inchiodato con un’occhiata terrificante che mi ha paralizzato finché, dopo un’eternità, ha distolto lo sguardo. Era uno sguardo gonfio di una rabbia segreta, che ho potuto interpretare solo molti anni dopo, attraverso i miei occhi di adulta. Desiderava scatenare la sua furia per il danno finanziario che gli avevo procurato. Voleva picchiarmi, forse violentarmi e farmi a brandelli. Ma farlo avrebbe signiicato rischiare un altro gesto irrazionale da parte mia, che avrebbe potuto distruggerlo. E lui, suppongo, non ha capito che non avrei fiatato: non perché ero una Custode di segreti, ma perché mi sentivo in colpa.

L’incendio è stato una casualità, ma forse le casualità non esistono. Forse le accuse che mi sono piovute addosso da parte di tutti coloro che mi circondavano erano giuste: ero gelosa del matrimonio di mia madre e volevo distruggerlo. Forse volevo semplicemente dare fuoco al fondale della mia vita. Forse, a nove anni, avevo bisogno che il mio mondo ardesse all’esterno così come ardeva dentro. Quando sei giovane devi far tornare i conti: è l’unico modo di dare un senso alle cose. Forse. E forse sapevo che le caratteristiche che contavano davvero – Indegna, Sporca, Cattiva – superavano di gran lunga le altre voci del mio elenco.

E così mi hanno mandata via. Come le volte precedenti, non ricordo i particolari di quell’abbandono. La mia memoria va dalla morsa dello sguardo del mio patrigno dopo l’incendio a quando mi sono ritrovata in Giordania, affidata a una parente, troppo imbarazzata per dire a qualcuno che avevo solo un paio di mutandine: le mettevo e ogni tanto le lavavo nel lavello, con il favore della notte, quando il mondo dormiva.

Sono passata da una casa di parenti all’altra. In una le zanzare mi hanno ridotto le gambe come se avessi la varicella. Qualcuno, non so chi, ha osservato che dovevo avere il sangue dolce, visto che a tutti gli altri le zanzare non avevano riempito le gambe di vesciche. Mi piaceva l’idea che il mio sangue fosse più dolce di quello di quasi tutti gli altri, e segretamente pensavo che mi conferisse poteri speciali. Però questo non l’ho aggiunto al mio elenco, perché non sapevo ancora esattamente quali fossero i miei poteri.

Dopo qualche mese è cominciata la scuola, ma io non l’avrei frequentata: non avevo documenti, non avevo passaporto. Non rientravo da nessuna parte, salvo una discussione politica intitolata “La questione palestinese”. Ero un’astrazione. Ero un niente. Così, per la prima volta in vita mia, di fronte al mio timore più grande, quello di restare priva di istruzione, sono diventata indisciplinata e ribelle e chiassosa e apertamente ostile e arrabbiata e instabile e lunatica.

“Bei voti” era l’unica voce sempre presente nel mio elenco di virtù, e non potevo certo sopportare di perdere l’unica costante della mia vita. Quindi ho implorato e sono andata nel panico e ho pianto e strillato e rotto le scatole a tutti, finché la commiserazione e la benevolenza che mi erano state dimostrate si sono esaurite.

Alla fine è arrivata mia nonna dal Kuwait. Aveva una valigia piena di vestiti per me, con vari completi di biancheria intima, e mi ha fatto vedere come entrare di nascosto in Cisgiordania attraverso il ponte di Allenby. Oggi è un’impresa impossibile, ma nel 1980 la situazione era diversa. Non c’erano le tecnologie di oggi e il varco era un caos: uno spazio aperto con tante valigie spalancate, i soldati che ci frugavano dentro, i bambini che scorrazzavano. Mi hanno detto di “restare con quella famiglia laggiù insieme agli altri bambini”. Ho fatto come mi dicevano. Visto che mi avevano promesso che sarei andata a scuola, ero tornata al mio io ubbidiente e avevo inserito di nuovo quella virtù nel mio elenco.

Sembrava che in quella famiglia ci fossero centinaia di bambini. In realtà probabilmente c’erano una ventina di fratelli e sorelle e cugini con i genitori. Così ho potuto semplicemente nascondermi o confondermi tra loro fino a sparire. Forse quel giorno mi ha salvato il fatto di essere più bassa della media, perché potevo facilmente rendermi invisibile in mezzo allo scompiglio. Mia nonna mi ha detto “ci vediamo dall’altra parte” e ha cominciato a recitare versetti del Corano. Mi aveva ordinato di non guardare negli occhi i soldati, di non cercarla, e di recitare più e più volte nella mia mente la Fatiha e qualsiasi altro versetto del Corano conoscessi a memoria, finché non fossi passata. Ho ubbidito: di versetti del Corano ne sapevo un sacco a memoria (anche questo era nel mio elenco di virtù).

Sono rimasta con quella famiglia numerosa. Mi sono tolta i vestiti e sono rimasta in mutande. Mi sono messa in fila accanto a tutte le altre donne e ragazze, in piedi contro il muro, mentre il soldato israeliano gettava le nostre scarpe in una cassa per ispezionarle, se le portava via e tornava dopo un’eternità, riversandole per terra a formare un cumulo. Sempre recitando la Fatiha tra me e me ho aspettato che le adulte si muovessero. Loro hanno aspettato il cenno di assenso del soldato. Poi ci siamo inginocchiate tutte attorno al mucchio di scarpe per recuperare ciascuna le sue. Ecco ciò che ricordo. Poi devo aver ritrovato mia nonna dall’altra parte; probabilmente aveva pagato le donne della famiglia numerosa per reggerle il gioco. Immagino che poi mi abbia portato a Dar al-Til. E io devo averle detto arrivederci.

“Sta bene”, risposi quando Sitt Hind mi chiese notizie di mia madre, ma l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era se lei poteva sentire l’odore di tonno che mi circondava. Peggio ancora, cominciai a temere di impuzzolentire la casa e che quell’odore restasse nell’aria dopo che me ne fossi andata. Non le dissi – e non glielo avrei detto neanche se non fossi stata così puzzolente – che da quando ero arrivata a Dar al-Til, quasi due anni prima, Amina non aveva mai cercato di mettersi in contatto con me.

Perché io ero Una che tiene i segreti, una che Non fa mai la spia e Non Spettegola. Quanto al fatto che ero stata abbandonata, non avrei mai spettegolato sul conto di mia madre, neanche tra me e me, nel segreto dei miei pensieri.

È possibile che Sitt Hind fosse rimasta delusa da Amina. Forse era delusa anche da me, per via di quel mio strano comportamento. Quel pensiero mi assilla ancora. Mi assilla il fatto di non aver mai avuto la possibilità di dimostrare a Sitt Hind che meritavo il suo investimento; che avevo interiorizzato il suo impegno a investire e a credere nell’umanità e nelle potenzialità altrui; che facevo tesoro dell’istruzione che mi dava e che ne avrei fatto il meglio che potevo; che le volevo bene per avermi educato e che quel giorno desideravo disperatamente abbracciarla; e infine che non sarei mai stata il tipo di madre che sacrifica la figlia o l’abbandona.

Non avrei mai avuto la possibilità di esprimere nulla di tutto ciò a Sitt Hind. Quella sera in cui mi trovai in casa sua, tutta puzzolente di tonno, fu l’ultima volta che la vidi. Qualche tempo dopo mi arrivò una notizia traumatica: avrei lasciato Dar al-Til. Mio padre mi aveva mandato a prendere perché andassi a vivere con lui negli Stati Uniti.

Giusto due settimane fa, a trent’anni di distanza, ho visto un film che descrive la vita di Sitt Hind. C’è una scena in cui lei dà a una delle sue allieve la scelta tra restare a Dar al-Til o andare con suo padre, che la vuole dare in moglie. La ragazza chiede di poter restare e Sitt Hind fa in modo che ciò accada, contro il volere del padre. Seduta in sala, mi è venuto da pensare che forse, quella sera di tanti anni prima, Sitt Hind mi aveva mandata a chiamare per chiedermi se volevo andare a vivere con mio padre, perché era disposta a tenermi se avessi detto di no. Vorrei tanto poter ricordare il nostro breve colloquio. Chissà, forse me l’ha chiesto. Magari le ho risposto che volevo andare, pensando che altrimenti non avrei mai lasciato l’orfanotroio. Semplicemente, non me lo ricordo. E suppongo che non abbia importanza.

Insomma, sono arrivata negli Stati Uniti a 13 anni. A 14, dopo essere andata a scuola per un anno coperta di lividi, con occhi neri e ossa rotte, sono finita sotto la tutela del tribunale della contea di Mecklenburg, in North Carolina, e ho ottenuto il permesso di soggiorno, mentre mio padre è stato condannato per abusi contro minori, un reato non grave. Diverse famiglie affidatarie dopo, i servizi sociali mi hanno sistemato alla Mill’s home, un istituto per l’infanzia gestito dalla Southern baptist convention. Ero una degli unici due studenti non cristiani del campus. L’altro, Alan, era ebreo; abbiamo stretto amicizia sulla base del comune fastidio per gli incessanti tentativi dei battisti di convertirci.

Alan era prudente e paziente. Io ero impulsiva e avventata, e quando mi hanno fatto balenare davanti agli occhi la possibilità di una famiglia e di un senso di appartenenza – il mio bisogno più grande e più insistente – l’ho colta al volo senza rifletterci troppo. E così, quando mi sono messa in contatto con Amina e lei mi ha invitato ad andarla a trovare, non ero certo disposta a lasciarmi intralciare da un dettaglio tecnico. Essendo affidata alla tutela del tribunale, non potevo uscire dalla giurisdizione statunitense prima di aver compiuto 18 anni. Ho usato la mia scaltrezza e le mie molte risorse per cogliere la palla al balzo. Ho trovato un modo per partire a soli 17 anni e sono andata da Amina in Kuwait per una settimana. Lei aveva appena partorito la mia quinta sorellastra, la più piccola. Per trascorrere una settimana con la mia madre biologica ho rinunciato alla sicurezza finanziaria derivante dalla tutela del tribunale, che avrebbe provveduto a me e mi avrebbe pagato gli studi fino alla laurea.

Quando sono tornata a Thomasville con l’idea di vivere da sola e finire l’ultimo anno delle superiori, ho scoperto che non potevo mantenermi lavorando da Burger King e da Mr. Gatti’s Pizza. Allora Anne, la mia insegnante, mi ha preso a stare con lei; ho potuto abitare a casa sua fino alla ine delle superiori e ho ottenuto una borsa di studio per frequentare prima il college e poi la scuola di specializzazione. Anne non credeva in Dio.

È così che sono passata dall’immersione nel cristianesimo evangelico nei primi anni della mia vita a un islam conservatore per tutta la prima adolescenza, poi al cristianesimo della Southern baptist e, fino al termine delle superiori, all’ateismo. Prima di compiere 16 anni avevo già vissuto in ventuno case diverse, di cui solo due erano di uno dei miei genitori. Le altre erano di parenti o di famiglie affidatarie, oppure erano istituti. Ho vissuto e viaggiato in tanti luoghi del mondo, ma il mio cuore non ha mai lasciato Gerusalemme, dove sono sepolti tutti i miei antenati, dove Sitt Hind mi ha fatto capire che valevo, e dove Umm Hassan mi ha detto che non dovevo mendicare gli avanzi di nessuno. Per trovare un minimo di controllo, ho maltrattato il mio corpo con il cibo e con droghe varie. Mi sono innamorata, e ho partorito, da sola, l’amore della mia vita. Ho avuto il cuore spezzato. Il corpo spezzato. A volte, tutto spezzato.

Ho sempre tenuto con me una vecchia foto di mio nonno Atiyeh, scattata forse negli anni venti. Indossa una jalabiya palestinese e in testa porta il tarbush, il copricapo dei notabili che i palestinesi hanno ereditato dai turchi. Ha i baffi folti e lunghi e con le punte arricciate all’insù. Sta dritto in piedi, con il petto gonfio come se trattenesse il fiato. Il nonno, mi dicono, era un uomo forte e severo. Era caparbio, tenace e non si tirava mai indietro davanti a una lite. Non accettava debolezze da parte dei figli maschi ed era particolarmente duro con il minore, l’uomo che sarebbe diventato mio padre. Il nonno ha vissuto tutta la vita ad al-Tur, sul Monte degli ulivi in Palestina, dove la nostra famiglia affonda le radici da almeno novecento anni. Aveva ereditato vasti lotti di terreno sulla leggendaria collina che domina Gerusalemme. Ed è morto prima di poter immaginare che quasi tutto ciò che possedeva gli sarebbe stato portato via, e che i suoi figli sarebbero stati costretti all’esilio e si sarebbero visti negare il diritto di tornare in patria.

La mia vita è ben lontana dalla sorte che Atiyeh credeva di lasciare in eredità ai suoi discendenti. Io, figlia di una lunga successione di un enorme clan di contadini palestinesi, sono cresciuta da sola, badando a me stessa, lontanissima dai miei diritti di nascita. Lontanissima anche dall’esperienza della maggior parte delle palestinesi, quasi sempre circondate e protette da famiglie numerose.

La mia è stata una vita non palestinese. Eppure sono arrivata a capire che rappresenta la verità più elementare su cosa signiichi essere palestinesi: espropriati, diseredati ed esiliati. E su cosa signiichi, in ultima analisi, la resistenza. Eccola, quella verità:

Essere soli, senza documenti, senza famiglia né clan, senza terra o paese signiica che uno deve vivere alla mercé degli altri. Magari c’è chi si impietosisce per la tua sorte, ma anche chi vuole sfruttarti e farti del male. Vivi in balìa del capriccio di chi ti ospita, talvolta sei depredato e quasi sempre sottomesso. Finché non la pretendi e non combatti per ottenerla, raramente sei trattato con pari dignità. Tuttavia ci sono anche cose particolarmente belle e punti di forza che si trovano solo nelle trincee di questa vita. Per esempio, la capacità di camminare a testa alta anche quando qualcuno ti mette il tallone sul collo; la saggezza di fare qualsiasi cosa sia necessaria per ottenere un’istruzione anche quando ti negano la scuola; la libertà di scrollarti di dosso la vergogna e di vivere la tua verità, per quanto incasinata, senza doverti scusare; il prodigio di un corpo che si guarisce da solo dalle ferite procurate intenzionalmente da altri e che si rimette in piedi per ricostruire; e la vittoria di un cuore che non soccombe alla paura né all’odio né al rancore.

Essere adulto signiica che prima o poi smetti di aver bisogno di far tornare tutti i conti e riesci a cavartela in qualche modo anche quando la tua sorte è in contrasto con i tuoi diritti di nascita o i tuoi sogni. Anche se mi sono vista negare la patria e l’eredità che mi appartenevano, ho avuto la grande fortuna di poter rivendicare la mia quota di caparbietà, di attaccamento alla terra e di amore per la terra che ho ereditato da Atiyeh; la mia quota di saggezza e di generosità che ho ereditato da Sitt Hind; la mia quota di bontà che ho ereditato da Umm Hassan. Di queste cose è fatta la mia identità palestinese. Della mia intifada sono fatte le mie storie. E ogni lettrice e lettore è una quota del mio trionfo.

 

SUSAN ABULHAWA è una scrittrice e attivista americanopalestinese nata nel 1970. Ha fondato l’ong Playgrounds for Palestine. Vive a Yardley, in Pennsylvania. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Nel blu tra il cielo e il mare (Feltrinelli 2015). Il titolo originale di questo racconto è Memories of an un-palestinian story, in a can of tuna.

 

La traduzione dall’inglese è di Marina Astrologo.